Sana Cheema, il destino di sangue porta il suo nome

Sana Cheema, il destino di sangue porta il suo nome

Sana Cheema, italo-pakistana uccisa dai parenti per aver rifiutato di sposare l’uomo scelto per lei, è solo l’ultimo nome inciso in una lunga scia di orrori sulle donne.

La vicenda di Sana Cheema è il drammatico paradigma di un futuro violato, all’ombra dell’emancipazione occidentale che tutto offre, e tutto toglie a donne in fuga da una vita di privazioni come lei. Uccisa dal suo stesso sangue, per aver osato infrangere le regole di una tradizione anacronistica eppure sempre viva, e mortale.

Sana Cheema, il prezzo della libertà

Da Brescia al Pakistan, per un viaggio di pochi giorni in famiglia, poi la morte. Un matrimonio combinato che s’ha da fare, e nessuna possibilità di ribellione. Di questo destino, forse, aveva annusato il nauseabondo odore la 25enne con un sogno di libertà tutto italiano, massacrata nella sua terra d’origine dal padre e dal fratello (secondo la confessione dello stesso genitore).

Per questo cercava riparo, ospite di un amore vissuto con lo slancio delle ragazze della sua età, senza troppe pretese se non quella di un domani scelto col cuore.

Il cancro nel cuore dell’Occidente

ragazza con la mano alzata contro violenza

Perché Sana è sintesi di un cancro onnipresente? Perché la sua fine è l’ennesima dimostrazione che la sola integrazione tra culture diverse può non bastare, se non si percorre la via di una concreta iniezione di diritti umani in terre in cui l’autodeterminazione della donna è mera utopia. Ennesima vittima sotto gli occhi di tutti, purtroppo non l’ultima.

Il vortice di una cultura in cui la donna è merce di scambio, in cui nasce, vive e muore secondo la legge spietata dei padri, è più prepotente di quanto si possa immaginare. Sana insegna che quel microcosmo di violenze non è in una galassia lontana, ma sempre più spesso dentro la nostra società. Troppo frenetica e scostante, talvolta, per fermarsi a osservare il male che colpisce il singolo, prima di vederlo affogare irrimediabilmente.

Sana Cheema come Hina Saleem

La morte ha molti nomi, e molti volti. Tra loro, quello di Hina Saleem, giovane di origini pakistane come Sana, arrivata in Italia con un carico di speranze e un pacchetto di sogni da investire in un desiderio che insiste là, in quel libero arbitrio negato e gelosamente annientato dal patriarcato.

Il 2006 è la sua tomba, scelta dalla mano assassina di una famiglia che non accetta quella sua declinazione sempre più occidentale, pericolosamente vicina a un’immagine di donna capace di decidere per se stessa, e amare chi la ama. Pericolosa per un assetto sociale in cui l’universo femminile deve tacere, anche quando intorno il mondo si infiamma dei colori della violenza, e del suo stesso sangue.  Sana e Hina, nomi brevi come la loro esistenza strangolata, sgozzata, consumata troppo presto per una sete di possesso incomprensibile.

Sana Cheema, sepolta come fosse una minaccia

L’esame autoptico sul corpo straziato di Sana Cheema, in Pakistan, non consegna alle donne come lei la speranza di un futuro migliore. Almeno non adesso, purtroppo. La 25enne non è morta per un infarto, come inizialmente riferito dai parenti. Il fuoco investigativo si era acceso grazie ai suoi amici che dall’Italia chiedevano verità su quel suo ultimo viaggio.

Quel corpo, frettolosamente sotterrato come fosse una minaccia, grida giustizia. A Brescia aveva trovato una nuova dimensione per rinascere. Morta per strangolamento, uccisa senza alcuna pietà e lontana da un mondo redento.

Gli uomini della sua famiglia, padre e fratello in attesa di giudizio in Pakistan, a un passo dalla pena capitale. Senza dubbio una condanna esemplare all’orizzonte. Ma la morte non cancella l’orrore che la precede. Si traduce in altra morte, se non la si chiama con il giusto nome. E la libertà resta un miraggio.