Un universo così dinamico e glamour come quello della moda si trova a dover fare i conti con il significativo impatto ambientale che caratterizza la propria filiera produttiva.
Per avere un’idea più chiara del problema, basti pensare che realizzare una singola t-shirt di tessuto sintetico vuol dire rilasciare nell’atmosfera una quantità di CO2 pari a 5,5 Kg. Questo fenomeno è ovviamente amplificato dal mercato del fast fashion che propone una moda economica e maggiormente improntata all’usa e getta. Parliamo di un modello di business cresciuto a dismisura negli ultimi 15 anni, tanto da far registrare un aumento del 60% degli acquisti di abbigliamento: l’indumento appena comprato, perché di basso prezzo e solitamente di scarsa qualità, viene spesso utilizzato per un breve periodo per essere poi sostituito con un capo più attuale.
E’ per meccanismi del genere che il settore della moda può essere ritenuto responsabile di ben 1,2 bilioni di emissioni di CO2 ogni anno, ovvero più di quelle generate nel settore dei trasporti marittimi e aerei insieme.
Ripensare il ciclo di vita dei tessuti
Questi dati nella loro essenziale drammaticità hanno condotto ad una doverosa presa di coscienza della problematica con l’impegno delle aziende a cambiare processi e logiche produttive, partendo proprio dal ciclo di vita dei tessuti che dovrebbe essere ripensato in ottica maggiormente sostenibile.
Un obiettivo sostenibile condiviso dai più importanti brand di moda attraverso azioni mirate che vanno dalla scelta dei materiali alla definizione di processi di smaltimento alternativi. Alcuni marchi, ad esempio, hanno iniziato a prediligere l’uso del cotone biologico al posto delle fibre sintetiche maggiormente inquinanti e hanno attivato servizi di riciclo di vestiti e tessuti che sono utilizzati per produrre nuovi capi d’abbigliamento. I brand dell’alta moda, inoltre,sono sempre più attratti dalla tematica del riuso: note firme del settore hanno realizzato collezioni servendosi di materiali di recupero come reti da pesca, gomme di pneumatici o anche bottiglie di plastica.
I consumatori, d’altro canto, si mostrano sempre più attenti a valutare l’effettiva sostenibilità degli abiti e premiano i marchi che dimostrano maggiore impegno nel ridurre l’inquinamento in tutte le fasi del processo produttivo dei propri capi.
La sensibilità verso il tema del climate change sembra essere un argomento particolarmente importante per i consumatori: il pensiero condiviso è che l’industria della moda, con i suoi ritmi produttivi serrati e con lo sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, contribuisca in maniera significativa alle emissioni globali di gas serra. E questa consapevolezza diffusa si riflette soprattutto sulle abitudini di acquisto e sulle iniziative delle aziende, strette tra il senso di responsabilità e la necessità di cavalcare le nuove tendenze per seguire il mercato.
Le iniziative del mondo della moda
Come ci spiega un video di Eni Tv dedicato al focus della moda sostenibile, sono numerose le realtà del settore divenute promotrici del cambiamento: il Copenhagen Fashion Summit e la Circular Fibres Initiative, insieme alle maggiori catene del settore (Burberry, Gap, Zara, Massimo Dutti e H&M) stanno cercando di cambiare in maniera proattiva il sistema moda puntando su un approccio sempre più green in ogni fase della filiera produttiva.
Le iniziative avviate dalle industrie fashion prevedono in primis l’eliminazione dell’uso di sostanze chimiche inquinanti e non biodegradabili nel trattamento dei tessuti, sostanze che possono creare danno all’ambiente sia in fase di lavorazione ma anche nei processi di lavaggio dell’abito e di scarico delle acque nella rete fognaria. Allo stesso modo si tende sempre più frequentemente ad evitare l’utilizzo di materiali plastici per l’imballaggio dei prodotti, un altro elemento da non sottovalutare in chiave inquinamento e che concorre alla definizione dell’emergenza ambientale.
La nota positiva è che comunque il settore della moda sembra si stia incamminando verso un sistema economico e produttivo maggiormente sostenibile che si riflette nell’impegno d’uso di energia pulita proveniente da fonti rinnovabili, oltre al traguardo di una politica zero waste, in grado di reintrodurre i materiali nel ciclo produttivo e ridurre le difficoltà inerenti lo smaltimento.
L’etica nella moda
Accanto a questi progetti che possiamo definire prettamente green si associa la tendenza generale ad attribuire una maggiore importanza alle condizioni dei lavoratori del settore, soprattutto per quanto riguarda le retribuzioni, gli orari e la sicurezza della manodopera. Se il costo del lavoro in Bangladesh o in Cina è inferiore che in Europa o negli Stati Uniti, la moda etica comunque impone di salvaguardare i diritti dei dipendenti e di assicurare loro una dignità professionale. Concetti come inclusività e diversità si stanno rapidamente affermando, diventando parte di un cambiamento che vede nelle differenze di genere, di provenienza e di orientamento sessuale un terreno di confronto e sviluppo.
La moda per poter essere veramente etica e sostenibile necessita di una garanzia di totale trasparenza di tutti i processi che compongono la filiera, compresa una maggiore attenzione alle condizioni dei lavoratori che sono parte integrante di questa industria.
Allo stesso tempo, però, affinché questa tendenza abbia realmente successo e si imponga in maniera concreta sul mercato è richiesta dal lato del consumatore la necessaria sensibilità a saper riconoscere ed acquistare capi di abbigliamenti realizzati in maniera responsabile e che prefigurano un impegno reale verso la riduzione dell’impatto ambientale e sociale nel comparto moda.