Cos’è l’indice Rt e perché è diverso dall’indice R0

Cos’è l’indice Rt e perché è diverso dall’indice R0

Indice Rt: il significato e la differenza rispetto all’indice R0 utilizzato a inizio pandemia per comprendere la pericolosità del contagio.

Indice Rt, indice R0… che confusione! In questa seconda ondata del Covid anche in Italia è diventato fondamentale il parametro dell’Rt (letto ‘erre con ti’), ovvero l’indice di trasmissibilità potenziale di una malattia infettiva. Un parametro citato da infettivologi, virologi, politici, dando per scontato che tutti capiscano cosa significa. Facciamo dunque ordine: ecco cos’è realmente l’Rt, cosa lo differenzia dall’R0 e come si calcola.

Il significato dell’indice Rt

L’indice di trasmissibilità Rt rappresenta il numero medio di infezioni prodotte da ciascun individuo infetto dopo aver applicato le misure di contenimento per una pandemia, nel nostro caso per la pandemia da Coronavirus.

Persone allarme coronavirus

Ma cosa lo differenzia quindi dall’R0 di cui abbiamo sentito parlare a lungo durante la prima ondata? Come chiarito da Paolo Giordano sul Corriere della Sera, rispetto all’R0, l’Rt è un dato che si riferisce a una popolazione in cui siano attuate misure di contenimento del contagio (sia all’esterno che in casa), mentre l’R0 è collegato a una popolazione totalmente esposta a una patologia. Per questo nella seconda ondata l’Rt ha sostituito del tutto l’R0.

Come si calcola l’indice Rt

Il valore Rt è il differenziale tra il numero di contagi attuali e quelli avvenuti nei giorni precedenti. Il calcolo non è dunque particolarmente complicato. Nel concreto, se l’indice Rt è 2, vuol dire che in media un singolo malato infetterà due persone. Se invece il valore è minore di 1, vuol dire che un singolo malato non riuscirà a infettare nemmeno un’altra persona, e quindi che l’epidemia può essere contenuta.

Si tratta comunque di un valore che deve essere considerato insieme a numerosi altri fattori, a partire dal numero di tamponi e dall’incidenza sulle singole regioni. Insomma, si tratta di un dato, ma non l’unico dato da dover considerare per comprendere la pericolosità della pandemia.

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