Quello di Luigi Calabresi è un capitolo di cronaca tra i più controversi e dibattuti. La sua storia è finita in un travagliato iter giudiziario.
Il commissario Luigi Calabresi è morto nel 1972, vittima di un attentato nel cuore di Milano. Non ancora 35enne, padre di due bambini e in attesa del terzo, fu trucidato con tre colpi di pistola alle spalle. A distanza di 16 anni, la giustizia ha individuato i responsabili di quell’esecuzione, al culmine di un percorso processuale disseminato di dubbi e sospetti.
Chi era Luigi Calabresi?
Luigi Calabresi è nato a Roma, sotto il segno dello Scorpione, il 14 novembre 1937. La sua morte è avvenuta quasi 35 anni dopo, il 17 maggio 1972 a Milano.
Il padre di Calabresi era un commerciante di oli e vini. Si è laureato in Giurisprudenza, con una tesi sulla mafia. Al percorso di avvocato, però, ha preferito quello in polizia. Con una carriera in fiore come commissario, è morto in un attentato in via Cherubini per mano di alcuni esponenti di Lotta Continua. Dietro la sua fine un tessuto di sospetti, sino al drammatico epilogo che ne ha consegnato il nome a una delle pagine più feroci della storia.
Luigi Calabresi ha sposato Gemma Capra e da lei ha avuto due figli prima di morire, Paolo e Mario Calabresi. Il terzogenito, Luigi Calabresi Jr, non lo ha mai conosciuto perché nato pochi mesi dopo l’omicidio.
Il commissario Calabresi ha assunto diversi incarichi presso la questura milanese, e il suo nome è finito sotto la lente dell’opinione pubblica per il sospetto coinvolgimento nella morte di Giuseppe Pinelli, anarchico precipitato da una finestra dell’ufficio del funzionario posta al quarto piano del commissariato.
Luigi Calabresi e il caso Pinelli
Proprio il caso Pinelli è stato uno dei più pesanti capitoli nella carriera di Luigi Calabresi. Il suo nome veniva sempre accostato a sinistri sospetti sulla morte dell’anarchico, sino a indurlo a querelare chi alimentava il clima di dubbi intorno alla sua carriera.
Si è parlato di omicidio, poi di suicidio, infine di una caduta accidentale dovuta a un malore. Sarebbe stata decisiva la testimonianza di un compagno di Pinelli, Paquale Valitutti, che ha dichiarato di aver visto il commissario uscire da quella stanza prima che l’uomo precipitasse.
La cornice di ombre tessuta intorno a Calabresi, però, ha resistito anche dopo il suo decesso. La sua è una storia oltraggiata da false accuse, riabilitata con una medaglia d’oro al merito civile alla memoria, conferita nel 2004, e una targa in via Cherubini.
La motivazione dietro il riconoscimento segna la chiusura di un tremendo vortice di dubbi sul commissario Calabresi: “Fatto oggetto di ignobile campagna denigratoria, mentre si recava sul posto di lavoro, veniva barbaramente trucidato con colpi d’arma da fuoco esplosigli contro in un vile e proditorio attentato. Mirabile esempio di elette virtù civiche ed alto senso del dovere“.
La morte del commissario Calabresi
I suoi due figli avevano due e un anno, Mario e Paolo, quando il commissario Luigi Calabresi è stato ucciso nell’attentato di via Cherubini. Gemma, sua moglie, aspettava il terzo bimbo che sarebbe nato di lì a pochi mesi. Era la mattina del 17 maggio 1972.
Uscito di casa, si stava dirigendo verso l’auto quando un killer lo ha colpito alle spalle. Tre colpi con una calibro 38, i primi due in rapida successione, l’ultimo, quello fatale, alla nuca.
I soccorsi non sono serviti a salvargli la vita, Luigi Calabresi è morto al San Carlo pochi minuti più tardi. Il delitto è stato immediatamente ascritto alle ostilità maturate durante le sue indagini sulla strage di piazza Fontana e al caso Pinelli. Il suo lavoro investigativo sugli ambienti della sinistra extraparlamentare lo ha inserito in circuito di potenziali rischi che, forse, lui stesso aveva già calcolato.
L’iter giudiziario e le condanne
Gli inquirenti si sono trovati di fronte a un mosaico di possibili scenari e moventi. Dalla pista delle Br a quella dell’estrema destra, ogni ipotesi sull’omicidio Calabresi si è infranta con quello che sembrava un rompicapo impossibile da risolvere. Un vero e proprio cold case, nelle cui zone d’ombra si sono inseriti gli arresti di Gianni Nardi, Bruno Stefàno e Gudrun Kies Mardon. Tutti risultati poi estranei alla vicenda.
La soluzione è arrivata per caso, nel 1988, con la confessione di Leonardo Marino al parroco di Bocca di Magra. L’ex militante di Lotta Continua ha ammesso di aver giocato un ruolo nel piano omicida. Poco dopo si è costituito ai carabinieri di Sarzana, chiamando in correità come esecutore Ovidio Bompressi e come mandanti Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani.
Il reo confesso Marino è stato condannato a 11 anni, pena ridotta perché collaboratore di giustizia. 22 anni di reclusione agli altri tre del commando. Nel 1995, la Corte d’Assise d’appello ha dichiarato prescritto il reato per Marino.
Nel 2006, il presidente Napolitano ha firmato il decreto con cui è stata concessa la grazia a Bompressi. Si tratta dell’unico condannato ad averne usufruito, da tempo ai domiciliari. Diversa sorte giudiziaria per Sofri e Pietrostefani. Il primo, in semilibertà dal 2005, è stato scarcerato nel 2012 dopo aver scontato 15 anni, 9 dei quali in carcere e gli altri sotto misure alternative.
Pietrostefani è entrato ufficialmente nello spettro della latitanza, scappato in Francia prima della sentenza definitiva, con prescrizione del reato nel 2027. Per la legge francese non può essere soggetto a estradizione.